L’attitudine plastica di Giuseppe Pirozzi, fin dal primo momento della sua lunga storia, riserva un’attenzione particolare ai materiali: al gesso e al legno delle figurine modellate, al bronzo subito alternato al ferro e al piombo fuso con una personalissima tecnica che consenta compattezza di forme sottratte ai prototipi accademici e solleciti immagini da parete, alla cera plasmata per alimentare la sensibile epidermide dei ritratti, degli animali in amore, dei guerrieri o di Icaro, all’acciaio fatto contenitore o involucro di larve, reliquie, detriti di una realtà drammatica in cui prenda sostanza il vero dominio della scultura: la rappresentazione del corpo umano in una visione distaccata e al tempo stesso commossa, a volte fantastica.
Ogni passaggio da un materiale all’altro, ogni rinnovamento tecnico, opera in Pirozzi una rottura, soprattutto negli anni Settanta-Ottanta, quando l’eco della grande statuaria delle antiche cattedrali cede alla ricchezza di impulsi che lo animano e, sottraendolo a schemi mentali, lo indirizzano verso articolazioni di piani taglienti che, lasciando trasparire un’emozione sensuale, coniugano, al di là delle apparenze, la linea d’ombra con un lungo respiro orizzontale, ovvero un mondo sotterraneo in ebollizione dal quale emergono, con poche linee geometriche verticali e oblique che sembrano prolungarsi oltre le sculture stesse, scarni profili in rilievo, ribollenti rivoli di un magma definitivamente contratto. Il labirinto barocco delle mani tese, tutto luce e ombra, ha ceduto al contenitore-specchio che rimanda all’infinito i riflessi della materia sulle nitide superfici.
Le stesse convinzioni ideologiche entrano risolutamente nella scultura dei successivi decenni e non sorprende l’ampiezza che assumono proprio nel momento in cui la scultura si fa architettura e lascia piena libertà all’invenzione, alla capacità di arricchire con ritmi inattesi un repertorio stilistico non dissimile da una naturale crescita organica di quanto ha invaso la contemporaneità: realizzazioni industriali e meccaniche, audaci conquiste della tecnica, scheletri di una galleria di impossibili mitomanie.
Ora è la volta dell’argilla, in previsione della cottura ma non della fusione in bronzo, dove volti, pesci, numeri, lettere, bulloni, viti e chiodi, che negli anni Ottanta carpiscono alla materia ogni segreto espressivo utile per alimentare il teatro della forma e con elegante maestria, si iscrivono in un caratteristico sistema di segni, gravemente sottolineati dal più breve battito di luce e dal soffio interno che le anima.
Echi di una concezione precisa, talvolta anche religiosa, quasi Pirozzi volesse estrarre, da un cumulo di macerie, altari scolpiti, guidano l’espressione sorvegliata delle terrecotte, la solida strutturazione, la compattezza delle masse plastiche, che imprimono alle immagini una vita autonoma nello spazio.
L’amore della materia, l’apertura di interessi alle ricerche archeologiche (torna, insistente, il ricordo dei templi di Selinunte abbattuti dal terremoto) e una sorta di virata nel senso della forma, decorativa, presente soprattutto nel coltivato interesse per il gioiello, evidenziano ora il modo di sbozzare le immagini, talvolta palpabili e più realistiche, talvolta meno esplicite, nel blocco quadrato o circolare che accoglie i resti di una scultura “a levare”.
Il blocco ha una funzione importante nella struttura delle tavolette e delle oscilla. Il valore sensibilissimo della linea, che corre fluida nella continuità unitaria dell’opera bidimensionale eppure tesa verso un ulteriore ampliamento spaziale e una costante semplificazione formale, accentua l’estrema consunzione delle figure verticali costituitesi, progressivamente, in un singolare plesso ritmico di forze, di intrecci fantastici, di libere variazioni in perfetto equilibrio, di geometrie mentali incanalate in un racconto onirico svelato in un silenzio da assedio.
Giuseppe Appella
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